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Emozioni a DCA

Emozioni a DCA

Il ruolo delle emozioni nei disturbi del comportamento alimentare

Le emozioni nella bulimia e nell’anoressia

Francesco Cecere, Giovanna Attinà
U.O.S.D. D.C.A ASL ROMA E

l presente lavoro si pone come obiettivo di passare in rassegna e commentare la letteratura scientifica che si è occupata del ruolo delle emozioni nel processo eziopatogenetico dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), l’anoressia e la bulimia nervose. Dati sperimentali confermano che i pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione hanno difficoltà o a riconoscere le proprie emozioni o a gestirle correttamente o a fare ambedue le cose.

Si intende, inoltre, evidenziare come, nei pazienti con DCA, l’uso dell’alimentazione per la gestione delle proprie emozioni sia il risultato di un comportamento adattativo sviluppatosi a partire da una relazione disfunzionale con la figura di attaccamento.
E’ bene precisare che il nostro vertice di osservazione non vuole essere troppo legato ad un determinato indirizzo teoretico: la letteratura passata in rassegna proviene da riviste specializzate nel settore dei disturbi alimentari e della psichiatria generale, con qualche sconfina-mento in riviste con un indirizzo cognitivista e psicodinamico.

I clinici che si occupano di eating disorders hanno da tempo riconosciuto i potenziali effetti dei fattori emozionali come antecedenti dei comportamenti alimentari anomali (Abrham S., 1982; Garner D. M., 1982; Lacey J. M., 1986; Arnow B., 1992).
A differenza di quanto sostenuto da Dalle Grave (2003), il quale afferma che nelle pazienti con DCA le abbuffate solitamente sono una conseguenza diretta della dieta e solo in alcuni casi servono per modulare stati emotivi intollerabili, si ritiene che il loro ruolo nelle modula-zione delle emozioni sia centrale.
Dati di osservazione clinica confermano la difficoltà delle pazienti con DCA a riconoscere e gestire le proprie emozioni (Cecere F., 2004a, 2004b).
Se si parla di disturbi del comportamento alimentare come “emotional disorder” è necessario definire quali sono le emozioni che stanno alla base di questi comportamenti patologici.
In alcuni filoni di ricerca, studi sperimentali hanno dimostrato che l’esposizione a spunti emozionali negativi può far precipitare un “over-eating”.
Telch e Agras (1996) affermano che donne con “binge-eating disorder” sono predisposte al binge (abbuffata) più in risposta ad uno stato d’animo negativo (di tristezza, rabbia, o paura), che in risposta ad una deprivazione calorica. Essi hanno studiato se e come lo stato emozionale possa influenzare il “binge eating” in pazienti affette da disturbi del comportamento alimentare, giungendo ad importanti risultati: gli stati emozionali negativi sono associati sia con episodi di perdita di controllo sia con episodi di “eating” classificabili come abbuffate. Le conclusioni di questo studio enfatizzano l’importanza dell’esperienza emozionale soggettiva nella definizione del “binge eating”; le abbuffate non possono essere identificate soltanto sulla base delle calorie consumate (Di pasquale S., 2000).
Clinicamente è possibile osservare che le pazienti bulimiche riferiscono spesso di avvertire in alcune situazioni specifiche un fastidio o un disagio crescente che si manifesta essenzialmente dal punto di vista somatico – “mi sentivo agitata”; presumibilmente, una persona che non de-codifica esplicitamente i suoi stati emotivi, cade in uno stato di confusione in cui riesce a descrivere con chiarezza soltanto degli stati somatici, che clinicamente possono essere definiti come sintomi soggettivi.
L’abbuffata, condotta spesso in uno stato alterato di coscienza, tende a provocare in queste pazienti un graduale allentamento della tensione. La paziente avverte cioè come un placarsi della tensione dovuta anche agli effetti fisiologici dell’abbuffata.
Subito dopo, però, in conseguenza dei sensi di colpa e delle idee autosvalutative (“sono una cretina, non ho saputo resistere neanche questa volta, faccio schifo”), la paziente mette in atto tipici comportamenti di compenso, principalmente vomito, ma anche esercizio fisico eccessivo, uso di lassativi e diuretici (Cecere F., 2007).
Un esame più attento evidenzia come quelle prime sensazioni somatiche, avvertite dalle pazienti, in realtà sono solo emozioni non riconosciute come tali, in genere emozioni spiacevoli (tristezza, rabbia, paura) ma non solo, che vengono mitigate, placate attraverso il ricorso all’abbuffata e alle successive condotte di eliminazione.
L’alimentazione, quindi, avrebbe per le pazienti bulimiche un ruolo fondamentale nella gestione delle emozioni.
Si riporta una breve esemplificazione clinica in relazione a quanto qui viene sostenuto.
G. è una ragazza di 18 anni (all’epoca dell’episodio). Ha grossi problemi di comunicazione con la madre e l’episodio che segue è particolarmente icastico.
G. è appena rientrata in casa e la madre è in cucina. Ha avuto una giornata dura ed è arrabbiata perché ha avuto una grossa delusione affettiva. Entra in cucina e prende una mela da un piatto che sta in mezzo al tavolo. Addenta la mela e va in camera sua. La mamma è intenta a scrivere, perché ha come hobby la cucina e scrive su una rivista che si occupa dell’argomento. Visto che la mamma non le dice nulla, G. prende una seconda mela e torna di nuovo in camera sua a mangiarla. Alla fine la madre, quando G. sta divorando la sua ottava mela, la apostrofa dicendo: “Ma non ti rendi conto che stai esagerando? Tutte queste mele ti faranno male! Diventerai grassissima!”.
Dopo questo episodio la madre ha chiesto un colloquio allo psicoterapeuta di G. per avere un consiglio su come comportarsi, e alla domanda: “Non poteva chiedere a G. che cosa avesse, invece di rimproverarla per avere mangiato troppo?” la madre di G. rispose che non le era venuto in mente.
G. non era consapevole di avere provato rabbia nei confronti della madre perché non si era interessata a lei e aveva continuato a scrivere: riferiva solo di sentirsi molto agitata senza sapere il perché.
Pensava che questa sua condizione fosse legata a quanto era successo prima di rientrare in casa e in questo c’era anche una parte di verità. Questa modalità di comunicazione era molto frequente tra figlia e madre e parecchi episodi di questo tipo si erano verificati nel tempo. La madre di G. aveva una lieve tendenza all’ortoressia (DCA in cui il paziente ha la tendenza a mangiare solo cibi particolarmente sani e biologici) e a causa della sua situazione familiare – la madre di G. era la secondogenita, con due fratelli maschi, era stata educata in modo spartano dal padre militare, con una madre senza un grande ruolo nell’educazione dei figli – non era riuscita a sviluppare quelle competenze specifiche di molte madri in termini di confidenza, sintonizzazione affettiva e complicità con la figlia.
L’episodio chiarisce il ruolo del sintomo “abbuffata” come comunicazione di un’emozione – la rabbia – a una persona che, per incompetenza, non era in grado di cogliere il messaggio. Situazioni simili sono molto frequenti nella pratica clinica con pazienti affette da DCA (Cecere F., 2007).

Nel caso delle pazienti anoressiche ci sarebbe invece un rifiuto totale di riconoscere e gestire le proprie emozioni.
La ricerca sui triggers emotivi che spingono ai comportamenti anoressici è fino ad oggi molto meno ricca.
Sembrano comunque essere due le emozioni che stanno alla base dell’anoressia: la paura ed il disgusto (Power M., 1997). La paura è presente in entrambe le classiche definizioni dell’anoressia di Hilde Bruch (1973) e di Gerald Russel (1979). In particolare, Russel analizzò a fondo la fenomenologia della paura di ingrassare, come “centro organizzativo” della sindrome anoressica. L’anoressica sarebbe talmente intimorita dalla possibilità di diventare grassa al punto da preferire una condizione di estremo sottopeso, che le assicura una “distanza di sicurezza” dal peso normale, piuttosto che avere un peso normale che è percepito come pericoloso, in quanto troppo vicino al sovrappeso.
A sua volta la paura di ingrassare sarebbe una manifestazione particolare della profonda paura universale di tutto, che pervaderebbe la personalità della anoressica.
Questa paura sarebbe il frutto di una auto-valutazione estremamente negativa che la anoressica esercita su sé stessa. L’anoressica si ritiene sempre inadeguata, insicura, di poco valore e priva di controllo sulla propria vita: è quel “pervasivo senso di incapacità”, già indicato dalla Bruch come costrutto cognitivo sotteso all’anoressia. Esso è concettualmente molto vicino al moderno concetto di scarsa autostima o Negative Self Evaluation (NSE) .
Una ricerca epidemiologica analitica del Fairburn ha stabilito che la NSE è uno specifico e potente fattore di rischio nello sviluppo degli eating disorder (Fairburn C., 1997). Come scrive Wilson (1999), NSE e bassa autostima sono concetti che si estendono ben al di là della semplice preoccupazione per il peso e l’aspetto, e sono caratteristiche molto diffuse tra le pazienti affette da disturbi alimentari.
Accanto alla paura, un ruolo importante è svolto anche dal disgusto. Il disgusto sarebbe rivolto verso il cibo in quanto considerato ingrassante, ed in secondo luogo verso il corpo o alcune parti del corpo che vengono percepite come grasse o come vicine ad esserlo. Il disgusto dell’anoressica è rivolto anche verso tutta la propria persona, non solo verso il corpo, e ciò è di nuovo sintomo di bassa autostima (Troop N., 2000).
La pressione sociale alla dieta ed all’essere magri fornisce infine un contesto culturale, in cui l’overeating ed il sovrappeso sono generalmente visti con disgusto.
Numerosi autori sostengono che la modalità disfunzionale di alimentarsi delle pazienti affette da DCA (restrizione o abbuffata/condotte di eliminazione) sarebbe il risultato di un comportamento adattativo sviluppatosi a partire da una relazione disfunzionale con la figura di attaccamento (Cecere F., 2007).
A tale proposito è necessario sottolineare come la ricerca clinica evolutiva degli ultimi anni offre una lettura dei disturbi alimentari precoci in chiave interattiva, evidenziando chiaramente l’importante ruolo svolto dal legame di attaccamento nella genesi dei disturbi alimentari dell’infanzia.
E’ attraverso il nutrirsi e l’alimentarsi che si sviluppano le basi psicologiche dell’identità e della personalità; infatti la soddisfazione del bisogno di essere nutriti permette la crescita e l’inizio dello scambio con l’ambiente esterno.
Di grande importanza, dunque, appare la capacità della madre di attivare la “funzione di sintonizzazione affettiva” (affect attunement) con gli stati d’animo del bambino; questa capacità, secondo Stern (1985, 1998), sarebbe alla base della percezione di sé come essere agente dotato di intenzionalità e quindi di una mente e di una individualità.
Le osservazioni di bambini con disturbi della regolazione alimentare nei primi mesi di vita mettono in luce la mancanza nel caregiver della “funzione di sintonizzazione affettiva” e l’esistenza invece di comportamenti di imprevedibilità e di incoerenza.
E’ frequente in questi casi il ricorso al cibo – dare del latte – come modulatore delle emozioni negative che sono espresse dal bambino attraverso il pianto. Quando il bambino avverte delle situazioni negative, che possono essere sia emozioni che dolori fisici, spesso indistinguibili almeno per gli adulti, il rimedio utilizzato è quello di fornire cibo oppure il “ciuccio”, che attraverso il movimento della suzione può provocare una riduzione del fastidio legato all’esperienza negativa (Cecere F., 2007).
Bruch (1973) ha evidenziato, attraverso l’accurata ricostruzione della storia evolutiva delle sue pazienti (adolescenti anoressiche), che una relazione disfunzionale precoce con le figure di accudimento si presentava spesso nella sfera alimentare, sottolineando la presenza di comportamenti contraddittori e incongrui del caregiver in risposta ai conflitti emotivi; ad esempio il cibo veniva offerto come ricompensa o rassicurazione, oppure veniva negato per esprimere un castigo o una disapprovazione.
La mancanza di una appropriata condivisione degli affetti su cui il bambino costruisce le proprie esperienze di efficacia e di autoconsapevolezza determina, come sottolinea Bruch (1973), che il “bambino cresca pieno di perplessità e confusione ogni qualvolta tenti di distinguere i suoi bisogni fisiologici, l’avere fame o l’essere sazio, dalle esperienze emotive interpersonali”. Tale modalità può persistere anche nelle fasi successive dello sviluppo.
Sono molti gli studi longitudinali che hanno evidenziato il rischio di una stabilità del disturbo alimentare nel tempo (Dahl M., 1986, 1992; Hagekull B., 1997; Lindberg L., 1994). In particolare, la continuità clinica dei problemi alimentari dalla prima infanzia alla fanciullezza fino all’adolescenza viene confermata dallo studio di Marchi e Cohen (1990), che hanno esaminato un campione di oltre 800 soggetti per un periodo di dieci anni; esplorando una varietà di problemi alimentari, gli autori hanno evidenziato che lo scarso appetito e il rifiuto selettivo del cibo sono predittivi di un disturbo anoressico adolescenziale, mentre le irregolarità del comportamento alimentare rappresentano fattori di rischio per la bulimia nervosa nell’adolescenza.

Conclusioni

La rassegna della letteratura scientifica esaminata ci consente di formulare alcune considerazioni.
I fattori emozionali vengono, da molti autori, riconosciuti come antecedenti dei comportamenti alimentari anomali, dunque, le abbuffate non sembrano essere una conseguenza diretta della dieta ma servono per modulare stati emotivi intollerabili.
I disturbi dell’alimentazione potrebbero essere considerati come situati lungo un continuum dove la fase anoressica rappresenta quella fase in cui le emozioni non vengono assolutamente riconosciute e gestite come tali, perché prevale un atteggiamento di totale chiusura rispetto al proprio mondo emozionale, mentre la fase bulimia rappresenta un tentativo di gestione del proprio mondo emozionale.
Nello specifico le pazienti anoressiche tendono a rifuggire con terrore tutti gli impulsi emozionali e gli stimoli corporei, a cominciare dalla fame, poiché questi sono vissuti come minacciose possibilità di perdere il controllo. Viene invece desiderato e perseguito lo stato d’animo di vittoria che nasce dal controllo di sé e dal perfezionismo. Le pazienti bulimiche presentano, invece, uno specifico deficit nel riconoscimento e/o nella gestione delle emozioni, che non vengono riconosciute come tali, ma come sintomi somatici vaghi – agitazione, nervosismo – e che sono gestite attraverso il comportamento alimentare disfunzionale (abbuffata/condotte di eliminazione).
Queste modalità disfunzionali di alimentarsi delle pazienti affette da DCA (restrizione o ab-buffata/condotte di eliminazione) sarebbero il risultato di un comportamento adattativo sviluppatosi a partire da una relazione disfunzionale con la figura di attaccamento.